La presentazione di un nuovo restauro
Il dipinto raffigura un soggetto biblico: Esaù vende la primogenitura a Giacobbe, uno degli episodi centrali della Storia di Isacco, tratto dall’Antico Testamento (Genesi 25, 29-34). Esaù e Giacobbe erano gemelli, figli del patriarca Isacco e di Rebecca. La coppia, impossibilitata a generare, aveva a lungo pregato Dio per avere una discendenza. Esaù, abile cacciatore, era il preferito di Isacco: ciò scatenò le invidie e le gelosie di Giacobbe, che era invece il preferito della madre. Un giorno, rientrato da una battuta di caccia, Esaù trovò il fratello intento a cucinare una minestra di lenticchie. Alla richiesta di poterne avere un piatto, Giacobbe pretese in cambio la primogenitura. Stremato dalla fame, Esaù accetto perdendo così i suoi privilegi e i diritti di precedenza sul fratello. Questo abile stratagemma fu congegnato da Giacobbe insieme alla madre Rebecca per ingannare l’ormai anziano Isacco. Indossato il vello di una pecora, per imitare la villosità del fratello, Giacobbe si recò dal padre il quale, a causa della sua cecità, lo scambiò per Esaù impartendogli così la sua benedizione.
Il dipinto si concentra sul momento più drammatico della storia: al lume di una fioca candela, all’interno di un ambiente domestico di cui si intravedono un tavolo e alcuni utensili, Giacobbe porge una scodella al fratello affamato che ha appena rinunciato ai suoi diritti di primogenito.
In occasione delle ricerche condotte per il Repertorio dei dipinti veneti nelle chiese e nei musei di Torino (XVI-XVIII secolo) è stato possibile circoscrive in maniera più convincente la paternità del dipinto, conservato nei depositi della Pinacoteca dell’Accademia Albertina. All’ingresso nelle collezioni del museo, esso era genericamente assegnato a “scuola milanese”. Tale indicazione fu poi corretta da Noemi Gabrielli nel 1933 in favore della bottega di Jacopo Bassano, attribuzione accolta dalla critica successiva e ribadita dai cartigli apposti sul retro del telaio. Sotto uno di questi, durante il recente restauro, è emersa una scritta lacunosa, redatta ad inchiostro su legno, nella quale si legge: «luchese…del…scolare».
Fondamentale per lo studio dell’opera è stato il recente restauro che ha rimosso lo strato di vernice alterata, permettendo una corretta lettura dei valori cromatici e luministici, a seguito della quale è stato proposta l’attribuzione a Francesco Bassano (Bassano del Grappa, 1549 – Venezia, 1592), figlio primogenito di Jacopo e fratello maggiore di Leandro e Gerolamo che, insieme a questi, si era formato nella bottega paterna.
La tela torinese deriva infatti, sia dal punto di vista della composizione che dello stile, da un dipinto di medesimo soggetto conservato presso il Musée Baron Gérard di Bayeux (inv. Po173). Il dipinto francese, di maggiori dimensioni (89.5 x 128.3 cm) rispetto a quello qui schedato e databile all’ultimo quarto del Cinquecento, è certamente riconducibile a Francesco grazie alla firma apposta in alto a sinistra («FRANC.us BASS.is/FACIEBAT»).
Nella tela di Bayeux il soggetto biblico non si limita a illustrare la vendita occorsa tra i due fratelli, ma è ampliato includendo anche l’anziano Isacco, al margine sinistro, e Rebecca, che sopraggiunge alle spalle dei figli con un altro piatto di minestra in mano. Anche l’ambiente domestico in cui si svolge la scena è descritto con maggiore accuratezza, che rispecchia in pieno la capacità della bottega dei Bassano di rileggere le storie sacre in chiave personale, calando gli episodi all’interno di ambientazioni quotidiane. L’episodio avviene dunque in una cucina dove sono esposti in bella vista piatti e stoviglie nonché la cacciagione, elemento iconografico che allude all’abilità di Esaù nella caccia. Anche in questo caso la scena avviene a lume di candela.
I Bassano, soprattutto Jacopo, erano specializzati nella raffigurazione di scene notturne, in particolare tratte dalla Passione di Cristo. Questi ‘notturni’ conobbero una grande diffusione presso i collezionisti ma anche presso gli altri pittori, che spesso li presero a modello. Ad esempio gli studi hanno rilevato come il fiammingo Hendrick ter Brugghen, per realizzare un Esaù che vende la primogenitura, abbia liberamente rielaborato proprio una delle molte versioni del dipinto di Bayeux.
L’alta qualità dell’esemplare di Bayeux, nonché la presenza della firma di Francesco Bassano, lasciano intendere che questa sia la prima versione da cui discendono numerose copie e repliche, tra cui quella di Torino. È quindi probabile che sia stato Francesco a introdurre questo soggetto all’interno dell’attiva e prolifica bottega dei Bassano, codificando forse un prototipo paterno. Nella biografia di Jacopo Bassano, Carlo Ridolfi ricorda infatti un «Esaù, che vendeva al fratello Giacob la primagenitura per una scodella di Lente». Un dipinto di soggetto simile è registrato anche nell’inventario dei beni del pittore, stilato nel 1592: «71. Un altro quadretto di notte di Giacob ed Esaù, di quarti tre per ogni verso: in circa».
Sicuramente si trattò di un tema di ampio successo come testimoniano i numerosi esemplari sparsi tra i musei e le collezioni private di tutto il mondo. Tra le repliche prodotte nell’ambito della bottega se ne segnala una al Musée des Beaux-Arts di Caen assegnata a Francesco Bassano e una in collezione privata attribuita al fratello minore, Gerolamo: entrambe riprendono la composizione intera del dipinto di Bayeux. Ancora più diffusi sembrano essere gli esemplari che semplificano la tela francese, riducendo la narrazione alle sole due figure di Esaù e Giacobbe. Oltre al dipinto presso l’Accademia Albertina se ne conoscono almeno altre cinque versioni, di qualità e fattura diverse. Tra queste il dipinto torinese, in seguito al restauro, sembra presentare una qualità tale da poter sostenere il nome di Francesco Bassano.
La tela entrò nelle collezioni dell’Accademia nel 1828, insieme ad un pendant oggi disperso rappresentante l’Annunciazione. Entrambe le opere erano parte del cospicuo lascito, costituito da 202 dipinti, databili tra Quattrocento e Settecento, che erano appartenuti al casalese Monsignor Vincenzo Maria Mossi di Morano (1752-1829), vescovo di Vercelli e persona vicina alla corte dei Savoia.
In realtà non sappiamo ricostruire con certezza la formazione della collezione del vescovo casalese, nel 1828 destinata «all’istruzione dei giovani inclinati alla bell’arte del disegno e della pittura», ma con buona probabilità gran parte dei quadri va ricondotta agli interessi del fratello del vescovo, tal Tommaso Ottavio Maria (1747-1802), viaggiatore appassionato e mecenate d’arte, committente di diverse iniziative artistiche e architettoniche per la città di Casale, morto senza discendenza, dopo aver nominato suo erede universale proprio il fratello Vincenzo Maria Mossi, donatore dell’Albertina. Oltre a questi, una parte della collezione Mossi di Morano è da ricondursi ad un altro avo, Francesco Giovanni Tommaso (1669-1742), gentiluomo di camera di Vittorio Amedeo II e di Carlo Emanuele III, e, per conto di quest’ultimo sovrano, ambasciatore straordinario a Venezia. Il suo testamento redatto il 28 giugno 1710 e aperto il 18 gennaio 1743, oggi conservato presso la Biblioteca Reale di Torino, elenca sommariamente i 270 dipinti posseduti dall’ambasciatore sabaudo che a loro volta erano stati in parte ereditati da uno zio morto nel 1702.
Le descrizioni spesso generiche non consentono di identificare facilmente i dipinti veneti ora in Pinacoteca Albertina, tra questi l’Esaù; si ritrova, invece, «una cucina con varij uomini, e donne» attribuita «al Bassano, o sul suo fare», ossia la tela seicentesca avente come soggetto un assemblaggio di figure e motivi desunti dalle opere di Jacopo Bassano e in particolare dal Grande Mercato della Galleria Sabauda (inv. 432).
Il dipinto è stato restaurato dalla dott.ssa Giulia Rollo tra maggio 2023 e aprile 2024, nell’ambito di un progetto internazionale organizzato dal Getty Conservation Institute e denominato Conserving Canvas, che ha visto coinvolti il C2RMF (Centre de Recherche et de Restauration des Musées de France) e la Pinacoteca Albertina di Torino. Il restauro è stato sostenuto economicamente dall’Associazione Amici dell’arte e dell’antiquariato e da un finanziamento del Getty stesso.
Durante lo studio preliminare sul dipinto che ha preceduto la realizzazione dell’intervento, è stato possibile rilevare un precedente e antico restauro, probabilmente antecedente al 1828 (anno di ingresso nella collezione dell’Accademia a seguito della donazione Mossi), che aveva previsto l’esecuzione di una foderatura, con l’apposizione di un supporto ausiliario simile alla tela originale.
Il supporto tessile originale del dipinto si presentava quindi molto infragilito e indurito, e le due tele presenti apparivano tra loro deadese, con ampie porzioni distaccate. La precedente operazione di foderatura aveva poi lasciato compromesse diffuse zone della superficie pittorica, che presentavano ampi segni caratterizzati da un andamento ortogonale e causati dalla pressione applicata sul dipintodurante l’incollaggio della tela ausiliaria.
Durante il recente restauro si è proceduto a rimuovere la vecchia foderatura, riappianare il dipinto, quindi foderarlo nuovamente con la tecnica del “reintoilage mixte”. Tale tecnica, inedita in Italia, è stata realizzata in collaborazione con restauratore francese Ludovic Roudet, l’esperto incaricato dal C2RMF di seguire il progetto, e si basa principalmente sull’impiego di adesivi di natura diversa per garantire una maggiore durabilità della foderatura nel tempo.
La pulitura dell’opera ha messo in luce una superficie molto segnata dall’azione di puliture precedentemente condotte sul dipinto, come dimostra la presenza di diffuse abrasioni che interessavano gli strati pittorici. Le poche lacune presenti sono state poi stuccate e quindi integrate cromaticamente con velature ad acquerello e successivamente con i colori a vernice. Con la verniciatura finale dell’opera si è concluso l’intervento di restauro.
Francesca Romana Gaja
Giulia Rollo
Elisabetta Silvello